di Irene Pagano
Non toccarci, ti prego
Se non lascerai segno.
Siamo migliori di te,
Siamo frivoli e sboccati.
Tu che non capisci l’asfissia
Non toccarci, ti prego.
Non sai cosa essa porti.
Non sai quanto essa tolga.
Non conosci il significato
Dell’essere vacui e benedetti.
Ti prego, non toccarci,
Se non lascerai segno.
I.
Quando non ci sei, mi sembra di perdere pezzi. Tu perdi sangue. Hai una mano premuta sulla bocca e le gocce ti colano tra le dita. Cadono sul copriletto con un rumore che sembra un cinguettio. Non riesco a staccarne gli occhi. Mi è sempre piaciuto tutto ciò che si versa, si rovescia.
«Merda. Stai bene? Ti ho preso al labbro o ai denti?»
Scuoti il capo. Vai in bagno, il preservativo ancora infilato mentre il tuo pene perde durezza. Mi alzo.
«Stai tranquillo, sto bene. Lascia stare»
Odio l’amarezza nel tuo sguardo. Abbasso la testa. Il gomito con cui ti ho urtato brucia un po’. Mi dispiace. Ti ho già chiesto scusa troppe volte, per troppi sbagli diversi. Spero tu non te ne sia ancora accorto. Spero, in qualche modo, che ogni macchia se ne vada senza lasciare aloni. Se tu rifiutassi le mie scuse, non so cosa resterebbe. Passo ogni secondo insieme a te ad architettare strategie per sopravvivere in tua assenza, fallendo. È l’affetto meno rispettoso, più svilente che abbia mai provato per qualcuno. Eppure sto così bene.
Butti il preservativo nel gabinetto, ti sciacqui la bocca nel lavandino.
«Scusami, davvero»
«Non fa niente, non pensarci», rispondi. Sputi. «Ho un regalo per te, comunque. È nella tasca del cappotto. Puoi prenderlo»
«Un regalo?»
Tiro giù l’impermeabile dall’attaccapanni accanto al letto. Nella tasca c’è una radice. Sembra zenzero, ma ha una sfumatura azzurrina.
«Hai idea di cosa possa essere? L’ho trovato in un’aiuola qui vicino»
«Non proprio. Però ha un bel colore, non credi?»
Esci dal bagno con un fazzoletto premuto sulle labbra. Quando ti bacio sulla guancia, mi spingi le mani contro il petto come a scacciarmi da te. Tengo la radice in braccio. Ha un aspetto vecchissimo, una minuscola quercia millenaria.
«Pensi che dovremmo metterla nel terriccio?», chiedo.
La prendi in mano, sfregandoci sopra il fazzoletto sporco. Una linea rossiccia si spalma lungo il suo corpo indaco. Sotto al tuo sangue sembra quasi brillare. Le sue escrescenze tondeggianti si contraggono con scrocchi legnosi. Ne conto otto, tutte dallo stesso lato, come le zampe del cavallo di Odino.
«Forse ho capito cosa le piace. Ho messo del maiale a scongelare, aspetta un attimo»
La radice assorbe il sangue. Rimane solo qualche macchietta marrone, lì dove è ancora umido. Passo i pollici sopra alle sue rughe profonde, gli schiocchi e gli spasmi diventano più lievi. La guardo e non so cosa fare. Non appena il calore del tuo palmo lascia la mia pelle, eccomi, sono ottuso e inutile.
Quando ti ho incontrato non era così. Tu mi facevi da spunto di riflessione, da trampolino di lancio verso la persona-migliore-che-non-sarò ma che è bene portare a mente. Adesso parliamo di filosofia e l’unico pensiero che sono capace di formulare è che voglio rivederti presto. Troppa libertà, è il problema. Come mi dice sempre mia madre. Troppa libertà, contatto, sesso, gioia. Ci ha consumato le membra. Era più gestibile, all’inizio, quando ci piacevamo con discrezione. Adesso è troppo tardi. Siamo una persona sola, ormai. Esiste un panico eterno nascosto tra le pieghe dei nostri corpi. Mi troverà.
Torni dalla cucina con una bacinella e un pacchetto della macelleria. Due uomini nudi che girano per un appartamento cercando di nutrire una piantina vampiro. Se qualcuno ci vedesse sarebbe difficile da spiegare. Sorrido. I miei piedi aderiscono alle mattonelle fredde.
Taglio l’involucro di plastica con la mia chiave del portone. La carne è fresca, ruvida. La spremo tra le mani, l’acqua rosata che ne esce riempie la bacinella appoggiata sul letto. Uso tutta la forza di cui sono capace. Mentre osservi i miei gesti con la radice accoccolata addosso, i tuoi occhi si colmano di una luce aguzza e scura. Non capisco se stai giudicando la mia esecuzione del procedimento o no. Io sono meno robusto di te, non mi piace toccare le cose morte. La tua pancia pallida sobbalza al ritmo del tuo respiro, la linea di peli biondi che la connette al pube ancora lucida di sudore. Io volevo solo venire, tu mi hai punito dandomi la responsabilità del Prendersi Cura.
Immergiamo la radice nel laghetto di sangue diluito e quella si disseta pian piano. I versi secchi e rapidi ricominciano. Questa volta suonano particolarmente soddisfatti. Mi sorridi, una gocciolina rossa tonda all’angolo della bocca. Hai ciglia incredibilmente spesse. Per un attimo, mi sembri così antico e bello.
Abbiamo accumulato un numero tale di ricordi felici, io e te, che se finisse male avremmo davvero motivi per cui dispiacerci. Abbiamo guadagnato cose da perdere, ma. Ma. Adesso dove si va? Cerchiamo di mantenere i risultati ottenuti, avanzare, forse crescere? È tutto solo un tentativo continuo di restare stabili, di non deludersi? Se stessimo perdendo il controllo, me ne accorgerei?
«Che c’è? Tutto bene?»
Lascio cadere la carne nella vaschetta di polistirolo. Sollevo la bacinella, tu mi aiuti a sorreggerla. La mettiamo sul comodino, accanto alle foto dei nonni.
«Mi dispiace tanto di averti colpito. Sono un incapace»
«Va già meglio, non ti preoccupare»
Mi siedo sul letto a gambe incrociate, scuoto la testa. Tu poggi la tua sulle mie cosce.
Quando sono con te, un sassolino si ferma a intasare il mio esofago. Il mio entusiasmo si impila lì, finché non straripa. Vedi, tutto si riduce a una sensazione tanto semplice, tanto inoffensiva. Allora perché i sorrisi strascicati, la paranoia e i filtri deformanti, l’aria paludosa e gli odori aspri di alcuni giorni, di alcuni momenti? Devo stare calmo.
All’improvviso, io ricordo. Non è mio, il ricordo. Non mi appartiene. Prima di ora, non sapevo neppure che esistesse. Eppure ricordo, so. Eri andato in gita al cimitero vecchio con i tuoi amici d’infanzia. Il tramonto estivo rappresentava per te il fulcro del sentimentalismo, dello squallore, del caldo vischioso. Tutti a guardare il tramonto, il rosso che sprofonda nel nero, persino nell’unico posto in cui la bellezza non arriva. Persino nel paese di tuo padre. Ti disgustava, come anche il fatto che i tuoi amici non ne fossero disgustati. L’hai detto ad uno di loro, scherzando, lui ti ha guardato serio. «Che ti devo dire. »
Non parlate più la stessa lingua, realizzi, e lui percepisce il tradimento in modo più solenne e bruciante. Non hai più aperto bocca. Hai fatto una foto al cielo, me l’hai mandata. “Qui anche i tramonti riescono a essere deludenti. Vorrei tu fossi con me.”
Sono sempre lento a rispondere. Mentre mi aspettavi non hai fatto niente. Hai lasciato che il braccio ciondolasse quasi fino a terra mentre stavi accovacciato su un muretto a secco, davanti alle bare tumulate. Hai pensato alla casa di tuo padre in un angolo del paese, alle zanzariere e alle tovaglie brutte, rigorosamente a fiori. L’afa che rende tutto spossante, una bettola in mezzo al nulla e piena di grida.
Poi il telefono ha vibrato contro il tuo palmo. Hai trattenuto il fiato.
Mi schiaffeggio la faccia, tu spalanchi gli occhi. Stringi il polso della mano carnefice, in silenzio. Sento la tua testa pesarmi sull’inguine con dolcezza inesorabile. I muscoli delle spalle si rilassano a poco a poco.
«Che ti prende?»
«Nulla. Mi ero incantato, per un attimo»
Adesso, la guancia pizzica più del gomito. Non credo rimarrà il segno. Non sta uscendo sangue. Oppure sì. Attraverso la plastica trasparente, vedo le estremità bulbose della radice muoversi a scatti, rimettersi a posto. Non scrocchia più. È colpa sua? È grazie a lei? Mi stropiccio la faccia.
«Hai chiesto a tua madre chi è, alla fine?» dico, indicando il ritratto appeso al muro. Raffigura una donna in abito monacale, forse una santa. Il velo copre parzialmente uno scuro sopracciglio arcuato. Sembra furiosa, affamata. Su questo letto, siamo sotto la sua tutela.
«Scusa, l’ho scordato. So solo che è uno dei regali di nozze di mia nonna». Allunghi le gambe finché le tue caviglie non sono sospese oltre il bordo del materasso. Ti accarezzo un ginocchio. Sorridi a occhi chiusi.
«Non farti intimorire dallo sguardo, secondo me è simpatica. Se ti dà fastidio, la copro»
Mi chino su di te, ti bacio. Cerco di essere delicato, di non farti allontanare. Ti amo, vorrei sussurrare. Ti devo cesura. Vorrei avvitarmi su me stesso e nascondermi, essere solo e conchiuso per un attimo. Per tua protezione.
«Sai di ruggine».
Irene Pagano
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